di Valentina De Giorgio

Con sentenza pubblicata in 23 settembre 2025, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sul caso Scuderoni c. Italia (ricorso n. 6045/24), riguardante la violenza domestica subita da una donna dal suo ex compagno e l’inerzia delle autorità italiane nell’affrontare la questione.

La vicenda alla base della pronuncia riguarda la ricorrente, cittadina italiana, che dopo la separazione dal compagno nell’agosto 2017, per mesi aveva continuato a vivere nella stessa abitazione con lui e con il loro figlio. Nel febbraio 2018, la donna aveva avviato un procedimento civile, lamentando maltrattamenti da parte dell’ex compagno, affermando che lui la costringeva a restare sveglia di notte puntandole una luce addosso, la denigrava e la maltrattava psicologicamente, le impediva di accedere a certe zone della casa, spostava continuamente i suoi effetti personali e la minacciava di gettare tutti i suoi beni in strada e di rapire il figlio. Per tali ragioni, chiedeva il diritto all’uso della casa familiare e l’affidamento principale del figlio, con diritti di visita per G.C. Nel luglio 2018 la donna presentava un’istanza separata al tribunale per ottenere un ordine di protezione, ma tale richiesta veniva respinta. Nell’agosto 2018, il tribunale concedeva alla ricorrente l’uso esclusivo della casa familiare con il figlio, stabilendo i diritti di visita di G.C.

Nel frattempo, tra marzo e giugno 2018, la ricorrente aveva presentato diverse denunce penali contro l’ex compagno per violenza continuata, molestie, mancato rispetto dei diritti di visita, accusandolo altresì di aver avuto accesso illegale ai suoi account di messaggistica personali e di lavoro, di aver letto le sue comunicazioni con gli avvocati e di aver installato telecamere in casa per monitorare i suoi movimenti. Nel febbraio 2019, al termine di un’indagine in cui diversi testimoni avevano confermato le accuse della donna circa la violenza ripetuta, il pubblico ministero decise di rinviare a giudizio G.C. per i reati di maltrattamenti in famiglia, molestie, lesioni e tentata estorsione, tutti aggravati dalla presenza del minore e dalla convivenza tra le parti. Dopo quattro anni, il procedimento penale, in cui la ricorrente si era costituita parte civile, si concludeva con l’assoluzione dell’ex compagno. Il pubblico ministero, nonostante la richiesta della ricorrente, riteneva di non impugnare la sentenza.

Per tali ragioni, la vittima adiva la Corte europea dei diritti dell’uomo, invocando l’art. 3 CEDU (divieto di trattamenti inumani o degradanti) e l’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata). Lamentava che nonostante i suoi ripetuti appelli e denunce rivolti alle autorità nazionali per denunciare il comportamento del suo ex compagno, i tribunali nazionali non avevano esaminato tempestivamente le sue domande, il tribunale civile aveva respinto la sua richiesta di un ordine di protezione e l’indagine penale era stata inefficace.

Con la sentenza in parola, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito, all’unanimità, che vi è stata una violazione dell’art. 3 CEDU (divieto di trattamenti inumani o degradanti) e dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata) da parte dell’Italia nei confronti della ricorrente.

Nell’affrontare la questione, i giudici di Strasburgo hanno anzitutto affermato che la violenza domestica costituisce una grave violazione dei diritti delle donne ed è stata riconosciuta come tale sia negli strumenti internazionali pertinenti, in particolare la Convenzione di Istanbul, sia nella giurisprudenza della stessa Corte. La Corte ha poi rilevato che le autorità non avevano adempiuto al loro dovere di effettuare una valutazione immediata e proattiva del rischio che l’ex compagno della ricorrente potesse sottoporla a ulteriori violenze. In particolare, la richiesta di un ordine di protezione era stata respinta senza che fosse stata eseguita alcuna valutazione del rischio e il tribunale civile aveva fissato l’udienza nove mesi dopo la presentazione della domanda urgente. Inoltre, vi era stato un ritardo di due mesi prima che la denuncia penale fosse registrata.

La Corte ha inoltre ritenuto che le autorità non avessero tenuto conto dello specifico problema della violenza domestica durante l’indagine penale nonostante le prove a loro disposizione, che dimostravano che la ricorrente era vittima di abusi coniugali. In tal modo, avevano mancato al loro obbligo di fornire una risposta proporzionata alla gravità delle accuse della ricorrente. Sul punto, “[l]a Corte sottolinea inoltre la particolare diligenza richiesta nel trattamento delle denunce di violenza domestica e ritiene che le specificità dei fatti di violenza domestica, come riconosciute dalla Convenzione di Istanbul, debbano essere prese in considerazione nell’ambito dei procedimenti interni.”

Per tali ragioni, la Corte ha condannato l’Italia al pagamento a favore della vittima della somma di 15.000 euro a titolo di risarcimento per il danno morale, nonché alla rifusione delle spese e degli onorari, liquidati in 10.000 euro.