di Federico Cappelletti

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza del 18 marzo 2021 nel caso Petrella c. Italia (ric. n. 24340/07) è tornata ad affrontare il tema dell’archiviazione del procedimento penale per prescrizione del reato dovuta all’inerzia dell’autorità inquirente e, conseguentemente, delle ripercussioni di un tale, non infrequente, accadimento sul godimento dei diritti riconosciuti dalla CEDU alla persona offesa dal reato, completando, così, il percorso esegetico iniziato con la sentenza del 7 dicembre 2017 nel caso Arnoldi c. Italia (ric. n. 35637/04).

Il ricorrente – cittadino italiano, che aveva sporto querela per diffamazione aggravata nel 2001 in quanto accusato di gravi reati di frode e corruzione in articoli pubblicati su un quotidiano locale – rappresentava come, a causa dell’eccessiva durata delle indagini preliminari, protrattesi fino al mese di novembre del 2006, il Giudice per le Indagini Preliminari, nel gennaio del 2007, avesse archiviato per intervenuta prescrizione il procedimento penale. Si doleva, pertanto, della sua eccessiva durata, sostenendo, altresì, che, con l’archiviazione, le autorità gli avevano negato l’accesso alla giustizia; evidenziava, da ultimo, come gli fosse preclusa la possibilità di azionare il rimedio previsto dalla L. 24 marzo 2021, n. 89 (la c.d. legge “Pinto”) in quanto consentito solo alla persona offesa costituitasi parte civile.

La Corte di Strasburgo, valorizzando il dato di fatto che le indagini preliminari prima dell’archiviazione si erano protratte per più di cinque anni senza che fosse posta in essere alcuna attività investigativa, ha ritenuto, all’unanimità, la violazione dell’articolo 6 CEDU, nel suo volet civil, in considerazione dell’irragionevole durata del procedimento. Tenuto conto, poi, che la causa dell’intervenuta prescrizione era ascrivibile in toto alle autorità giudiziarie e che un tanto aveva impedito al ricorrente di costituirsi parte civile nel processo penale per veder esaminata la sua richiesta risarcitoria nel tipo di procedimento che aveva scelto, come previsto dal diritto interno, con cinque voti contro due (opinioni dissenzienti sul punto dei giudici Wojtyczek e Sabato), ha accertato la violazione dell’articolo 6 CEDU, nel suo volet civil, sotto il profilo della preclusione del diritto all’accesso alla giustizia. Da ultimo, preso atto del fatto che non è dato beneficiare del rimedio “Pinto” alle persone offese che non abbiano potuto costituirsi parte civile, la Corte ha ritenuto sussistere, all’unanimità, la violazione dell’articolo 13 CEDU stante la carenza di un ricorso effettivo per potersi dolere dell’eccessiva durata del procedimento penale.

Pur in pendenza del termine per chiedere il rinvio alla Grande Camera, si rileva come l’accertata violazione all’unanimità dell’art. 13 CEDU sconfessi l’orientamento recentemente espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 249 del 2020 che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2 bis, della legge “Pinto” laddove prevede che, ai fini del computo della durata ragionevole, il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di parte civile in capo alla persona offesa dal reato, con ciò disvelando una carenza strutturale dell’ordinamento domestico.