Di Lucrezia Tiberio

La comunità internazionale ha iniziato a riconoscere lo stretto collegamento tra gli effetti negativi del cambiamento climatico e i diritti fondamentali; “la connessione non può essere negata” ha dichiarato all’Assemblea Generale il primo relatore speciale delle Nazioni Unite sulla protezione dei diritti umani nel contesto del cambiamento climatico, nel suo primo rapporto formale sul tema.

“Il cambiamento climatico indotto dall’uomo è la più grande e pervasiva minaccia all’ambiente naturale e alle società che il mondo abbia mai sperimentato, e i Paesi più poveri stanno pagando il prezzo più alto”, ha dichiarato ai delegati.

Le attività perpetrate dai Paesi ricchi e dalle grandi aziende, che non agiscono per ridurre le loro emissioni di gas serra e di conseguenza non riescono a far fronte alle esigenze dei più poveri e dei più deboli. Sono, infatti, i membri del G20 ad essere responsabili del 78% delle emissioni dell’ultimo decennio.

Il relatore speciale dell’ONU ha espresso il desiderio di tracciare una linea comune di obiettivi, in vista della prossima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima in Egitto (COP27), in cui si dovranno fronteggiare le enormi conseguenze negative del cambiamento climatico per i soggetti emarginati, sia in termini economici, che riguardo alla tutela dei diritti fondamentali.

Le raccomandazioni contenute nel report riguardano tre aree principali; in primo luogo, le questioni relative al miglioramento dell’azione di mitigazione per indurre i Paesi a impegnarsi maggiormente, ad esempio riducendo le emissioni di gas serra, con il fine di garantire per tutti il diritto ad un ambiente salubre, diritto rafforzato sempre di più dalla giurisprudenza internazionale.

La questione successiva riguarda proprio le conseguenze di questo fenomeno, cioè gli enormi impatti che i Paesi stanno subendo a causa dei cambiamenti climatici e degli enormi costi che ne derivano. A questo proposito si sta discutendo anche dell’istituzione di un fondo per le perdite e i danni.

L’ultimo punto riguarda l’accesso e l’inclusione. Una volta riconosciuta la connessione che esiste tra il fenomeno climatico e i diritti fondamentali, è doveroso assicurare la rappresentanza dei soggetti maggiormente colpiti dal cambiamento climatico nel dibattito sul degrado ambientale; si tratta di donne, bambini, giovani, persone con disabilità, popolazioni indigene. Questi soggetti sono vittime di una discriminazione incrociata: il loro status di soggetto marginalizzato si moltiplica a causa delle conseguenze del cambiamento climatico.

In questo senso, è stato fondamentale l’apporto del mondo accademico, che ha allertato la comunità internazionale a più riprese sul tema, argomentando come il degrado ambientale sia in grado di esacerbare le diseguaglianze sociali già presenti nella società, e di come la negazione ad un ambiente salubre abbia delle conseguenze sul diritto alla vita, alla salute, all’istruzione, al cibo. Un’ulteriore conseguenza, su cui vale la pena riflettere, riguarda il fenomeno migratorio: si stima che entro il 2050 raddoppierà il numero di migranti climatici, che ad oggi non godono di una vera e propria tutela a livello interno (internally displaced people) e internazionale. Dopo il caso Teitiota v. Nuova Zelanda (2014), gli organi internazionali hanno iniziato a costruire un quadro normativo che possa tutelare i migranti ambientali, riconducendo nell’alveo della protezione internazionale anche il diritto ad un ambiente salubre, ma la grandezza del fenomeno impone una soluzione collettiva urgente.