di Adriana Raimondi

Con la recente sentenza nel caso Tartamella e altri c. Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU in relazione al sequestro e alla confisca di beni appartenenti a due delle ricorrenti.

Il caso riguarda il sequestro e la confisca di beni appartenenti ai ricorrenti, il cui valore è stato ritenuto dalle corti interne equivalente al ricavato di reati commessi dai loro familiari, autori di alcuni reati di natura economico-fiscale. Le misure, in sostanza, si basavano sulla constatazione che, anche se i ricorrenti risultavano quali proprietari formali dei beni, questi ultimi erano a disposizione dei loro familiari.

Con riferimento alle prime due ricorrenti (ricorso n. 26338/19), nel 2008 era stata avviata un’indagine penale nei confronti del di loro padre per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000, truffa e bancarotta fraudolenta. Nel corso di tale procedimento, il giudice per le indagini preliminari di Brescia aveva disposto il sequestro dei beni delle figlie ai fini della confisca di una somma equivalente ai proventi del reato, ai sensi dell’articolo 1 paragrafo 143 della legge n. 244 del 2007.

Il provvedimento si basava sull’assunto che la registrazione dei beni a nome delle ricorrenti fosse fittizia e che il padre avesse utilizzato le figlie come intestatarie di comodo per sottrarre i beni ai creditori, sulla base della mancanza di mezzi economici delle ricorrenti e di una testimonianza secondo la quale il padre avrebbe dichiarato di essere il reale proprietario di un edificio a Brescia formalmente intestato alle figlie.

Con i differenti ricorsi presentati, i ricorrenti lamentavano la violazione dell’articolo 7 della Convenzione, sostenendo di essere state punite per reati commessi da altri, e dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, denunciando il carattere sproporzionato e imprevedibile delle misure di sequestro e confisca; una di esse invocava inoltre l’articolo 6 paragrafo 1, affermando di non aver avuto accesso a un rimedio effettivo per contestare la legittimità della confisca dei propri beni.

La Corte, dal canto suo, riconosceva la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 con esclusivo riferimento alle prime due ricorrenti, ricordando che il sequestro e la confisca costituiscono un’ingerenza nel diritto di proprietà e che devono quindi essere disposte in conformità al criterio di legalità, al criterio del perseguimento dello scopo legittimo e al principio proporzionalità.

Nel caso di specie, invece, le autorità nazionali si erano limitate a richiamare la mancanza di risorse economiche e a riferirsi in modo generico a pratiche di intestazione fittizia, senza fornire elementi concreti e obiettivi idonei a dimostrare che i beni confiscati fossero effettivamente nella disponibilità dei condannati.