Di Emilio Robotti

Il caso (BOUTON c. FRANCE – r. n. 22636) deciso dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo riguarda la condanna inflitta alla ricorrente, un’attivista femminista, all’epoca membro delle “Femen”.

La ricorrente era stata condannata ad una pena detentiva (seppure sospesa), per atti di “esposizione sessuale” (exhibition sexuelle. Il fatto era accaduto in una famosa chiesa parigina (Eglise de La Madeleine), dove l’attivista aveva inscenato una protesta rimanendo in piedi davanti all’altare maggiore mentre esponeva i seni, con slogan scritti sul suo corpo ed inscenando un aborto usando un fegato di manzo crudo. La sua esibizione, non avvenuta durante la celebrazione di una messa, era stata breve e l’attivista al termine aveva lasciato la chiesa su richiesta del direttore del Coro. La protesta aveva avuto una copertura mediatica, data dalla presenza di una decina di giornalisti. La Corte di Strasburgo ha ribadito nella decisione che, secondo la propria giurisprudenza, l’imposizione di una pena detentiva per un reato di espressione del pensiero in ambito politico potrebbe essere compatibile con la libertà di espressione garantita dall’articolo 10 della Convenzione solo in circostanze eccezionali, come, ad esempio, nel caso di discorsi di odio o di incitamento alla violenza.

Invece, l’unico obiettivo della ricorrente, che non era stata accusata di alcun comportamento offensivo o di odio, era stato quello di contribuire al dibattito pubblico sui diritti delle donne, senza odio o incitamento alla violenza.

Inoltre, la Corte di Strasburgo ha rilevato che la sanzione penale inflitta alla ricorrente per il reato di esposizione sessuale non aveva in realtà cercato di punire un attacco alla libertà di coscienza o di religione, ma piuttosto aveva voluto reprimere l’esibizione a nudo dei seni della ricorrente in un luogo pubblico. Sebbene le circostanze relative al luogo (una Chiesa) e i simboli utilizzati dalla donna (il feto abortito del piccolo Gesù, il Natale) dovessero essere prese in considerazione, in quanto elementi contestuali per valutare i diversi interessi in gioco, la Corte ha concluso che i tribunali nazionali non erano nemmeno tenuti, in considerazione dell’accusa nel caso concreto (exhibition sexuelle), a soppesare il diritto della ricorrente alla libertà di espressione con il diritto alla libertà di coscienza e di religione ai sensi dell’articolo 9 della Convenzione.

Interessante il parere concorde della Giudice ŠIMÁČKOVÁ in calce alla decisione.