Di Emilio Robotti

Nell’agosto 2009 alcuni media polacchi pubblicavano un’intervista dal titolo “Doda: non credo nella Bibbia” alla signora Rabczewska, artista e cantante famosa in Polonia, nota appunto con il nome d’arte “Doda”.

L’intervistatore, dato che il boyfriend della cantante aveva pubblicamente dichiarato forti sentimenti antireligiosi, aveva chiesto all’artista che cosa lei pensasse della religione.

Doda aveva risposto che credeva in un “potere superiore”, ma che al contempo era più convinta dalle scoperte scientifiche che non dalle “incredibili storie [bibliche]” scritte da “qualcuno che si è rovinato bevendo vino e fumando erba”.

Due soggetti privati avevano denunciato la cantante ritenendola colpevole con tali dichiarazioni di aver offeso i loro sentimenti religiosi, violando così l’articolo 196 del Codice penale polacco.

Rinviata a giudizio, sebbene nel corso del procedimento a suo carico la cantante avesse sostenuto di non aver voluto arrecare alcuna offesa e di aver semplicemente risposto a domande del giornalista sulla sua vita privata in modo “sincero, soggettivo e frivolo”, con l’intenzione di rivolgersi soprattutto al suo giovane pubblico di appassionati di musica, nel gennaio 2012 veniva condannata dal Tribunale distrettuale di Varsavia ad una sanzione penale, infliggendole una multa di 5.000 zloty polacchi (circa 1.160 euro, pari a 50 volte il minimo della sanzione). Il Tribunale polacco aveva ritenuto le affermazioni della cantante su presunti autori della Bibbia sotto l’effetto di alcol e stupefacenti deliberatamente offensive e veicolo di disprezzo per i credenti.

Tutte le impugnazioni della cantante contro la sentenza di condanna, compreso un ricorso alla Corte Costituzionale Polacca nel 2015, erano stati respinti.

La Corte di Strasburgo ha invece accolto il ricorso della cantante, ravvisando la violazione da parte dello stato polacco dell’art. 10 della CEDU (Libertà di espressione) attraverso un corretto bilanciamento tra i diritti in gioco.

Nell’operare tale bilanciamento, la Corte di Strasburgo, in primo luogo, ha rilevato che l’intervista del ricorrente conteneva effettivamente dichiarazioni che avrebbero potuto scioccare o disturbare alcune persone. Tali opinioni, seppure oggettivamente scioccanti per un credente, ha osservato la Corte, sono però protette dalla Convenzione, a condizione che non incitino all’odio o all’intolleranza religiosa.

Ebbene, secondo la Corte di Strasburgo, l’autorità giudiziaria polacca, condannando la cantante, non aveva sostenuto che le dichiarazioni della cantante potessero essere considerate un discorso di odio (hate speeching), né che le sue dichiarazioni nell’intervista diffusa fossero in grado di fomentare o giustificare la violenza, l’odio o l’intolleranza verso chi professa idee religiose. In definitiva, interferire con il diritto alla libertà di espressione della ricorrente, secondo la Corte di Strasburgo non era necessario, né giustificato dall’esigenza di garantire la pacifica coesistenza di gruppi e individui religiosi e non religiosi in Polonia.

La Corte ha rilevato che l’autorità giudiziaria polacca, pur avendo un ampio margine di discrezionalità per decidere su questioni riguardanti gli interessi della società nel suo complesso, non aveva con le proprie decisioni fornito ragioni sufficienti per giustificare la condanna della ricorrente, così interferendo illegittimamente con la sua libertà di parola. Omettendo le corti nazionali polacche di identificare e soppesare correttamente gli interessi in gioco: il diritto alla libertà di espressione dell’artista intervistata, il diritto dei singoli e della collettività a vedere tutelati i propri sentimenti religiosi, la preservazione della pace religiosa nella società polacca.

Secondo la Corte EDU, più specificamente i Tribunali e le Corti polacche non hanno valutato in modo corretto il contesto più ampio delle dichiarazioni della ricorrente. Dichiarazioni che non solo non intendevano evidentemente contribuire a un dibattito serio su questioni religiose, ma erano state fatte dalla cantante in risposta a domande sulla sua vita privata, con un linguaggio frivolo e colorito, destinato a suscitare soprattutto l’interesse del suo giovane pubblico.

Inoltre, la sanzione inflitta alla ricorrente – una condanna penale e una multa pari a cinquanta volte il minimo – non poteva essere considerata insignificante.

La sentenza (il cui testo è reperibile a questo link), in continuità con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia, ha visto tuttavia il voto contrario di un giudice del Collegio (giudice Krzysztof Wojtyczek) il quale ha espresso anche una dissenting opinion, come ammesso dal regolamento della Corte, pubblicata unitamente alle opposte concurring opinion di altri due giudici (Felici e Ktistakis).

E’ interessante notare che nella dissenting opinion il Giudice Wojtyczek afferma nel caso in oggetto la prevalenza del diritto al rispetto del sentimento religioso nel bilanciamento sul diritto alla libertà di espressione, argomentando che “Il numero di atti di cristianofobia, comprese le aggressioni fisiche ai sacerdoti, sta aumentando con particolare rapidità in Polonia (The number of Christianophobic acts, including physical assaults on priests, is increasing particularly speedily in Poland.)” senza peraltro fornire alcun dato a supporto di tale asserzione. Ma l’affermazione più forte è certamente che a parere del Giudice dissenziente  “la giurisprudenza più recente [della Corte di Strasburgo N.d.r.] può dare l’impressione che nei casi riguardanti l’Islam la Corte segua il suo approccio consolidato e cerchi di proteggere efficacemente i sentimenti religiosi contro i discorsi antireligiosi, mentre nei casi riguardanti altre religioni l’approccio si è evoluto e la protezione offerta ai credenti contro i discorsi antireligiosi abusivi si è indebolita (the most recent case-law may create an impression that in cases concerning Islam the Court follows its established approach and seeks to protect religious feelings effectively against anti-religious speech, whereas in cases involving other religions, the approach has evolved and the protection offered to believers against abusive anti-religious speech has weakened.” Nemmeno troppo velatamente, affermando in tal modo che la Corte di Strasburgo avrebbe la propensione a difendere alcune religioni (l’Islam) a discapito di altre (il Cristianesimo).