di Emilio Robotti

La decisione della Corte Europea dei Diritti dell’uomo Volodina v. Russia no. 2 del 14.9.2021 concerne un caso di “cyberviolence” e “revenge porn”; tragicamente, rappresenta anche un ennesimo esempio della crescente violenza contro le donne da parte degli ex mariti e partners, che si verifica anche online.

Un fenomeno purtroppo che non accenna a diminuire e rispetto al quale gli Stati aderenti alla CEDU hanno un preciso dovere di punire i responsabili e di proteggere le vittime, come afferma la Corte.

La sig.ra Valeriya Igorevna Volodina, oltre che alla cyberviolence  e revenge porn oggetto della pronuncia in esame, era già stata oggetto negli anni precedenti di ripetute violenze fisiche, minacce e molestie da parte dell’ex partner, denunciate in un altro ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Volodina c. Russia), accolto, anche in quel caso, con accertamento della violazione dell’art. 3 (divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti) e dell’art. 14 (Divieto di discriminazione, in connessione con l’art. 3) da parte delle autorità russe, che non avevano né protetto la vittima né punito l’aggressore.

A causa di tali violenze, minacce e persecuzioni, la ricorrente aveva anche cambiato nome nel 2018. Ma ciò non era stato sufficiente a proteggersi, né a spingere le autorità russe a difenderla dai successivi attacchi attraverso la rete.

La sig.ra Volodina, oltre agli atti di violenza, nel caso esaminato dalla Corte che ha accolto il ricorso accertando all’unanimità del Collegio la violazione dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione, aveva denunciato alla Polizia russa di aver subito, a partire dal 2016, sempre da parte dell’ex partner (di nazionalità Azera e dal quale si era separata), l’utilizzo del proprio nome e dei propri dati personali insieme a sue fotografie che la ritraevano nuda per creare falsi (fake) profili sui social networks, aggiungendo a tali profili come “amici” i compagni di classe e l’insegnante di suo figlio. Inoltre, la ricorrente aveva denunciato alla polizia l’apertura di un falso profilo Instagram e di un profilo su un social network russo, oltre alla scoperta di un tracker (trasmettitore) GPS nascosto nella fodera della sua borsa dall’ex partner; nonché di aver ricevuto minacce di morte da quest’ultimo.

Inizialmente, le Autorità russe avevano rifiutato persino di aprire il caso, sostenendo il loro difetto di competenza territoriale e la mancanza di un illecito, per poi aprire un’inchiesta solo a distanza di due anni dalla denuncia, nel 2018; ma per archiviarla in quanto prescritta.

Ciò, nonostante fosse stata accertata la pubblicazione di foto della sig.ra Volodina nuda, trovate sul telefono dell’ex partner e da questi pubblicate, in assenza del suo consenso.

Quanto poi alle minacce di morte ed al tracker GPS, le autorità russe non avevano mai aperto alcun fascicolo di indagine, ritenendo “non reali” i fatti denunciati dalla sig.ra Volodina.

La Corte di Strasburgo, nella decisione in oggetto del 14.9.2021, ha ribadito la propria giurisprudenza (tra le altre citate nella decisione, Buturugă c. Roumanie), secondo la quale gli Stati parte della Convenzione hanno un obbligo di realizzare ed applicare un sistema che garantisca una effettiva punizione dei colpevoli per i crimini di violenza domestica commessi sia offline che online, prevedendo altresì un meccanismo di effettiva protezione per le vittime.

La Corte ha accertato che l’ordinamento russo contiene previsioni sia in sede civile che penale a protezione della vita individuale privata, e che le autorità russe hanno quindi a disposizione una serie di strumenti legali per investigare episodi di violenza, cyberviolence e revenge porn come quelli di cui è stata vittima la sig.ra Volodina. Tuttavia, secondo la Corte, la legge russa non prevede alcuna misura di protezione per le vittime di violenza domestica, quali ad esempio ordini di non avvicinamento alla vittima, di allontanamento dell’aggressore dalla vittima e di protezione della vittima.

Inoltre, la risposta delle Autorità russe ad un rischio noto di violenza nei confronti della ricorrente era stata completamente inadeguata; ed attraverso l’inazione e la mancanza di azioni deterrenti, anzi, le autorità russe avevano sostanzialmente consentito all’ex partner della ricorrente di continuare ad esercitarle violenza, a minacciarla e molestarla.

Infine, il modo stesso nel quale erano state gestite le indagini, con il loro avvio solo dopo ben due anni dai fatti ,  conducendo alla prescrizione ed all’impunità del responsabile, hanno secondo la Corte messo in dubbio la stessa capacità dell’apparato statale russo di garantire un efficace deterrente per proteggere le donne dal fenomeno della cyberviolence.

Per tali ragioni la Corte ha accertato all’unanimità la violazione dell’Articolo 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare), riconoscendo il diritto della ricorrente a percepire una somma a titolo di equa soddisfazione ai sensi dell’art. 41 CEDU oltre alle spese sopportate.