di Emilio Robotti

Il Tribunale di Genova il 9 maggio 2023 ha accolto un ricorso ex art. 30 c. 6 del D.Lvo 286/98 e art. 20 D.Lgs 150/2011 relativo al diniego di permesso di soggiorno per motivi familiari.

Si trattava del caso di una coppia same sex, registrata come unione civile da alcuni anni, composta da un cittadino italiano e da una cittadina (anagraficamente di sesso maschile) extra U.E.

La particolarità della coppia (ed il motivo per cui era stato rigettato il permesso di soggiorno) era costituita dal fatto di essere composta da persone senza dimora, noti entrambi come tali alle associazioni di volontariato cittadine e con la “residenza fittizia”, cioè la residenza che viene concessa dall’Ente Locale alle persone prive di abitazione, ma domiciliate presso il territorio comunale e che spesso alloggiano da familiari, amici o nei dormitori pubblici.

La Questura di Genova aveva rigettato la domanda di permesso di soggiorno perché la ricorrente aveva dichiarato di usufruire, come il compagno, di dormitori pubblici (separati per genere sessuale), di incontrarsi come coppia nelle mense per persone senza dimora e “in giro per la città” (i dormitori pubblici durante il giorno debbono essere liberati dagli ospiti).

Secondo il provvedimento impugnato, una “condizione sicuramente non riconducibile ad un progetto di vita in comune, qualificante la nozione di famiglia ai sensi dell’art. 8 CEDU” che dimostrava l’assenza di “effettiva unione familiare e consortium vitae”. Il che, secondo la Questura, provava quindi la natura fittizia dell’unione civile che fondava il rigetto della domanda.

L’impugnazione ha denunciato la violazione e/o falsa applicazione D. Lgs 30/07, della Direttiva 2004/38/CE, dell’art. 20 TFUE, dell’art. 8 CEDU, del D. Lgs. 286/98 e s.m.i (art. 19, comma 2 lett. c). L’art. 20 TFUE, infatti, osta a provvedimenti nazionali che abbiano l’effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento effettivo del nucleo essenziale dei diritti conferiti dallo status suddetto, come confermato e ribadito dalla Corte di Giustizia U.E. con la Sentenza Ruiz Zambrano (8 marzo 2011, causa C-34/09, EU:C:2011:124). La stessa decisione Ruiz Zambrano (poi richiamata e confermata da altre pronunce, ad esempio in Murat Dereci e a. c. Bundesministerium für, causa C-256/11, EU:C:2011:734) ha inoltre precisato che qualora il giudice nazionale ritenga che le posizioni dei ricorrenti nelle cause principali siano soggette al diritto dell’Unione, esso dovrà valutare se il diniego del diritto di soggiorno leda il diritto al rispetto della vita privata e familiare, previsto dall’art.7 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’U.E. Ma, qualora il giudice nazionale ritenga che dette posizioni non rientrino nella sfera di applicazione del diritto dell’Unione, esso dovrà invece condurre il proprio  esame delle posizioni dei ricorrenti alla luce dell’art. 8, par. 1, della CEDU.

Il Tribunale, in applicazione di tali principi, ha effettuato un’istruttoria nel corso della quale, tramite anche le testimonianze di alcuni operatori sociali e con l’ascolto delle dichiarazioni della coppia è emerso che essa si è sempre presentata come tale e che l’unione civile non era affatto fittizia e finalizzata a consentire il soggiorno della cittadina extra U.E., ma era anzi da considerarsi genuina.

Il carattere fittizio dell’unione civile era, secondo il Tribunale, da escludere anche applicando le “linee guida” elaborate dalla Commissione europea, contenenti una serie di criteri valutativi per impedire l’abuso dei diritti comunitari ed utilizzando il Manuale redatto dalla stessa Commissione per segnalare gli elementi che possono far presumere tale abuso.

Su tali premesse, il Tribunale di Genova ha accolto il ricorso dichiarando illegittimo il diniego del permesso di soggiorno.

In sostanza, tenuto conto che l’unione civile anche tra persone dello stesso sesso è considerata equivalente ad un legame matrimoniale, si è trattato di un caso nel quale la condizione di fragilità e di povertà estrema dei protagonisti è stato l’aspetto che ha portato al rigetto del permesso di soggiorno. Condizione che è stata illegittimamente rafforzata dall’iscrizione all’anagrafe comunale nella via “fittizia” prevista dalla Circolare Istat n. 29/1992, nonostante essa abbia valore giuridico come l’iscrizione in una via realmente esistente.

La residenza fittizia è stata di recente oggetto di una decisione del Consiglio di Stato (n. 11044/2023), il quale ha precisato che in caso di rinnovo del permesso di soggiorno, è compito dell’Amministrazione verificare accuratamente, caso per caso, se lo strumento dell’iscrizione anagrafica nella “via fittizia”, di per sé lecito, ottenuto secondo i presupposti di legge e in osservanza dei regolamenti dei singoli Comuni, sia stato utilizzato dall’istante come strumento per eludere leggi e costituisca pertanto un rischio per la sicurezza pubblica e per le norme poste a tutela di specifici settori. Inoltre, secondo il Giudice Amministrativo, di tale verifica l’Amministrazione deve dare compiutamente atto nel provvedimento di eventuale rigetto.

Va detto che la decisione in commento del Tribunale di Genova risulta coerente con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in tema di legami familiari tutelati dall’art. 8 CEDU (Dadouch v. Malta; Benes c. Austria; Maslov and others v. Austria) e soprattutto con i criteri “Üner”, elaborati dalla Corte Edu per riconoscere la genuinità del legame familiare e la sua intensità (Üner v. the Netherlands [GC]) citati dalla difesa della ricorrente al Tribunale di Genova; nonché sempre con riferimento all’art. 8 CEDU in accordo con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo relativa al concetto di domicilio  (C. e altri c. Armenia; W. e altri c. Francia) richiamata dal Consiglio di Stato nella Sent. 11044/23.