Danimarca e Italia, insieme ad altri paesi (Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia) hanno firmato una lettera “per avviare una nuova e aperta conversazione sull’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo” (We want to use our democratic mandate to launch a new and open minded conversation about the interpretation of the European Convention on Human Rights).

Nel preambolo della lettera i leader dei governi firmatari (farisaicamente a nostro avviso) richiamano il loro attaccamento allo stato di diritto e alla protezione dei diritti umani e la loro fedeltà alle organizzazioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la NATO.

Meraviglia che i firmatari abbiano ignorato e neppure menzionato il Consiglio d’Europa di cui essi stessi fanno parte, tra cui l’Italia, Danimarca e il Belgio quali paesi fondatori fin dal 1949 e nel cui ambito è stata firmata il 4 novembre 1950 a Roma (palazzo Barberini) la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che ha istituito la prima corte internazionale che consentiva ai sudditi di denunciare le violazioni compiute dai Re, proprio davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo.

 Dopo 75 anni da tale evento, è la prima volta che un gruppo di Stati contesti in maniera così plateale e politica l’operato della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sua funzione di interpretazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, lanciando la grave accusa che la Corte  “abbia esteso eccessivamente il campo di applicazione della Convenzione rispetto alle intenzioni originarie della Convenzione”.

In passato alcuni Stati hanno contestato il contenuto delle singole sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’uomo: Russia, Turchia, Ungheria, Regno Unito, Polonia, Svizzera; altri Stati non hanno ottemperato al dictum della Corte, ma il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha sempre vigilato al riguardo (art. 46 della stessa Convenzione).

Qualche Stato ha anche ipotizzato il ritiro dal Consiglio d’Europa o la denuncia della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, al fine di sottrarsi alla giurisdizione della Corte, ma i paesi membri dell’Unione Europa (quali sono tutti i firmatari della lettera in questione) non possono denunciare la Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, perché l’art. 6, comma 3, del Trattato sull’Unione europea (versione consolidata), formula uno esplicito richiamo a questa Convenzione (“ I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”).

Inoltre, l’art. 52 comma 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea prevede che «laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa».

Questa lettera del 22 maggio 2025, sembra rompere il tetto di cristallo, perché in via di principio imbocca un percorso di revisione “à la carte” della Convenzione in base all’orientamento politico di ciascuno dei 46 paesi membri del Consiglio d’Europa, ma che deve trovare eventualmente una sintesi   solo attraverso la revisione dei trattati e non anche mediante una sfida diretta ai giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Si ricorda, infine, che l’orientamento politico è legato, – sia pure democraticamente- all’orientamento della maggioranza formatasi all’interno dei singoli stati, ma i diritti umani vanno garantiti proprio alle minoranze e non sulla base del consenso della maggioranza del momento.