di Alessio Sangiorgi

Con una sentenza pubblicata lo scorso 25 novembre nel caso Biancardi c. Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è occupata per la prima volta di un’ipotesi di responsabilità civile di un giornalista per non aver deindicizzato un’informazione pubblicata su Internet.

Nella specie, il ricorrente, ex caporedattore di un giornale online, era stato convenuto in un procedimento civile per aver mantenuto sul sito web del suo giornale l’indicizzazione di un articolo che riferiva di una rissa in un ristorante che aveva coinvolto i proprietari, fornendo dettagli sul relativo procedimento penale. I giudici interni avevano stigmatizzato che il ricorrente non avesse deindicizzato i tag dell’articolo, con la conseguenza che chiunque poteva digitare in un motore di ricerca il nome del ristorante o del proprietario e avere accesso a informazioni sensibili sul procedimento penale, nonostante le richieste delle persone lese. In conseguenza, avevano accertato la violazione dell’altrui reputazione, con condanna al risarcimento dei danni nella somma di 5.000 Euro. Nel suo ricorso alla Corte EDU, il sig. Biancardi lamentava l’incompatibilità di tali conclusioni con l’art. 10 CEDU, che tutela la libertà di espressione

La sentenza è interessante perché traccia per la prima volta i confini convenzionali del diritto all’oblio, il quale – come richiesto a più voci negli interventi dei terzi – non si espande fino a comprendere la rimozione permanente o la cancellazione degli articoli di cronaca pubblicati (e nemmeno la richiesta di rendere anonimi i nominativi), ma è limitato a un obbligo di “de-listing” della notizia.

È altresì interessante evidenziare come i giudici di Strasburgo abbiano approfittato di questa prima importante occasione di confronto con un caso riguardante il diritto all’oblio e i suoi confini per stabilire i principi pertinenti a guidare la valutazione della necessità o meno di un’interferenza in questo settore. In tal senso sono stati identificati i relativi criteri da seguire, ovvero i) la durata temporale della permanenza online dell’articolo, e ciò alla luce delle finalità per le quali i dati personali sono stati originariamente trattati; ii) il grado di sensibilità dei dati in questione, e iii) la gravità della sanzione imposta al ricorrente.

Sulla base di tale iter argomentativo e nel bilanciamento dei contrapposti interessi e diritti, la Corte non ha riscontrato alcuna violazione dell’art. 10 CEDU, statuendo piuttosto che l’obbligo di deindicizzare il materiale, nel rispetto del diritto all’oblio, grava non solo sui fornitori di motori di ricerca su Internet (come già riconosciuto nella famosa sentenza Google Spain della Corte di Giustizia dell’UE), ma anche sugli amministratori di archivi di giornali o riviste accessibili via Internet. Tale obbligo cresce progressivamente nel tempo, parimenti all’esigenza di tutelare il rispetto della reputazione (tutelato a livello convenzionale dall’art. 8 CEDU), mentre il diritto a diffondere informazioni diminuisce.

La prima Sezione ha dunque convenuto con le conclusioni delle sentenze dei tribunali italiani: il prolungato e facile accesso alle informazioni sul procedimento penale riguardante il proprietario del ristorante aveva violato il diritto al rispetto della sua reputazione. Il diritto del ricorrente a diffondere informazioni ai sensi della Convenzione non era quindi stato violato, poiché lo stesso è stato correttamente bilanciato con altri diritti meritevoli di pari tutela sul piano convenzionale, tanto più che non gli era stato effettivamente richiesto di rimuovere l’articolo da Internet.