di Alessio Sangiorgi

Lo scorso 20 luglio, la Commissione europea ha pubblicato il rapporto annuale sullo Stato di diritto nell’Unione europea, comprendente una comunicazione che esamina la situazione nell’UE nel suo complesso e specifici capitoli per paese su ciascuno Stato membro. I capitoli relativi a Polonia e Ungheria mostrano il deteriorarsi della situazione in questi due Stati membri, nonostante per entrambi sia in corso un esame relativo all’attivazione dell’art. 7 TUE, dopo la proposta rispettivamente della Commissione nel dicembre 2017 e del Parlamento europeo nel settembre 2018.

La criticità della situazione è mostrata anche dai più recenti eventi. Con sentenza del 14 luglio u.s., il Tribunale costituzionale polacco ha stabilito che l’ordinanza della Corte di Giustizia dell’UE dell’8 aprile 2020, con la quale la Corte di Lussemburgo aveva richiesto l’immediata sospensione della legge che stabiliva un nuovo regime disciplinare per i giudici della Corte Suprema polacca e l’istituzione di una apposita Sezione disciplinare, è stata emessa ultra vires e dunque non spiega effetti nell’ordinamento polacco, in tal modo disattendendo il principio del primato del diritto dell’UE. Si tratta di una nuova e grave empasse per i rapporti – già tesi – tra Polonia e istituzioni europee. Il giorno dopo, il 15 luglio, sul medesimo ricorso per inadempimento è intervenuta la sentenza della Grande Sezione che ha condannato la Polonia per mancato rispetto degli art. 19 TUE e 267 TFUE.

Inoltre, il 15 luglio 2021, la Presidente della Commissione UE ha annunciato l’apertura di nuove procedure di infrazione nei confronti di Polonia e Ungheria sulla normativa e le politiche in materia LGBT+, in risposta, da un lato, a una legge anti-lgbt adottata dal Parlamento ungherese che vieta o limita l’accesso a contenuti LGBT+ rivolti a minori di 18 anni e, dall’altro, alle risoluzioni di diverse regioni e comuni polacchi che avevano istituito delle zone c.d. “LGBT free”.

Nel frattempo, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Reczkowicz c. Polonia del 22 luglio, ha condannato la Polonia per violazione dell’art. 6 CEDU, statuendo che la sopra menzionata Sezione disciplinare della Corte suprema polacca, istituita a seguito della contestata riforma del 2017, non costituisce un “tribunale costituito per legge”, difettando dei requisiti di imparzialità e indipendenza dal potere esecutivo e da quello legislativo. Il caso costituisce uno dei 38 ricorsi presentati contro la Polonia tra il 2018 e il 2021 e riguardanti vari aspetti della riorganizzazione del sistema giudiziario polacco iniziata nel 2017.