di Federico di Salvo

“Chi occupa … preoccupa”! Ennesimo altolà di Strasburgo ai modi di acquisto della proprietà non coperti dal principio di legalità.

La proprietà rimane uno dei baluardi della tutela dei diritti fondamentali. Anche in questi ultimi tempi la Corte Europea di Strasburgo non ha perso occasione per riaffermare la sua giurisprudenza più volte espressa in materia di interferenze illegali nel “pacifico godimento dei beni”, sancito e protetto dall’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU, e in particolare in quella speciale interferenza che è l’esproprio da parte delle autorità di un bene privato senza il rispetto della legalità sostanziale e procedimentale, e quindi senza il rispetto della primazia del diritto anche sull’azione amministrativa, uno dei corollari dello Stato di diritto.

Lo ha fatto lo scorso 1° giugno con la Sentenza di Comitato, I Sez. nel caso Barone c. Italia n. 23668/05, una vicenda assai risalente, riferita a uno degli espropri degli anni ‘60/’80  condotti in modo del tutto indiretto (preceduti dall’occupazione, rispetto al decreto di esproprio o addirittura alla dichiarazione di pubblica utilità) e, nel caso di specie riguardante un quartiere di Palermo.

Come noto, infatti, accanto al modello classico diretto e legittimo di esproprio si affiancarono in Italia altre prassi espropriative invero fantasiose. In particolare, a partire dagli anni ’70 (come ben sintetizzato nella Sentenza Guiso Gallisay c. Italia Sent [GC] Sent. Equa soddisfazione, n. 58858/00, 22.12.2009   §§.  18 ss.) avveniva che diverse amministrazioni locali italiane si immettessero per via fatto o di forza, nel possesso di terreni procedendo ad occupazioni d’urgenza (con una vera e propria delimitazione di forza con tanto di operazione “cinematografica” del funzionario comunale col nastro bianco e rosso e l’intervento delle ruspe…) senza vincolo preordinato all’esproprio o la preventiva dichiarazione di pubblica utilità; oppure senza emanare i successivi decreti di espropriazione.

Dottrina e giurisprudenza italiane, con un intento di sistematizzazione, accorsero a identificare da un lato le prassi della c.d. occupazione appropriativa / espropriazione acquisitiva che si realizzava nelle ipotesi in cui il provvedimento ablatorio veniva emanato successivamente all’illecita occupazione di fatto del bene privato, ma così facendo le “legittimarono” con un’interpretazione “di salvataggio a posteriori” con il noto fenomeno-istituto all’epoca vigente dell’accessione invertita (una interpretazione della Cassazione del 1983) ; e dall’altro descrissero l’occupazione usurpativa che si sostanziava invece nell’illecita occupazione di un bene privato senza un procedimento espropriativo (occupazione usurpativa pura) ovvero a seguito dell’annullamento della procedura espropriativa o di singoli atti di quella (occupazione usurpativa spuria). Il vulnus a diritto di proprietà poteva anche non limitarsi a questo, se l’Amministrazione, in sede di “rimedio”, si fosse peraltro spinta a indennizzare il bene espropriato non secondo il valore di mercato del bene ma secondo un mero, teorico, e molto minore valore venale (o per i fondi che non fossero non edificabili…l’obsoleto e costituzionalmente illegittimo “valore agricolo medio”).

Il caso in esame, introdotto nel lontano 2005, all’esito di un defatigante processo civile eccessivamente e irragionevolmente lungo ( di qui il ricorso anche al rimedio Pinto, di cui si parla in Sentenza) verte proprio su un’occupazione acquisitiva urbana dei tardi anni ‘80, ipotesi in cui, secondo l’allora giurisprudenza legittimante si integrava il fenomeno dell’accessione invertita con irreversibile acquisizione del fondo al patrimonio dell’Amministrazione, e per giunta male o non sufficientemente  indennizzata, secondo criteri incongrui.

Come ben espresso dalla Sentenza Carbonara e Ventura c. Italia, n. 24638/94, §§ 63-73, e Messana c. Italia, n. 26128/04, §§ 38-43, 9 febbraio 2017, in Sentenza richiamate come ancora valide ed effettive, tale modus procedendi, del tutto invertito, si è sempre mostrato, e si mostra tuttora,  indiretto, surrettizio e convenzionalmente incompatibile, perché comportante l’acquisizione di un terreno a vantaggio dell’amministrazione e la sua trasformazione irreversibile senza che previamente sia intervenuto un formale atto di trasferimento della proprietà (Scordino c. Italia n. 3), n. 43662/98, 6.3.2007, §10) e quindi non sorretta da una base legale prevedibile: non osservante la “buona e debita forma” che prevede, nel rispetto della legalità dell’azione amministrativa, atti diretti preordinati e consequenziali del procedimento coperti da una dichiarazione democraticamente legittimata, di “bisogno imperioso” e di “pubblica utilità”.

Per giunta l’insufficiente indennizzazione, svilente il rimedio e quindi il ristoro all’avvenuto illecito, costituisce ulteriore profilo di violazione, con conseguenziale condanna delle Autorità, da parte della Corte a versare in via di equo indennizzo ex art. 41 CEDU, un importo differenziale secondo il criterio del valore di mercato, al fine di completare il “redressement” necessario per soddisfare la proporzionalità insita nel giusto equilibrio tra diritto sacrificato e opera pubblica, ed estinguere lo status di vittima del ricorrente.